La scienza medica ha elaborato la figura dello straining.
L’espressione straining, che deriva dall’inglese “to strain”, ovvero stressare, mettere sotto pressione, sottoporre ad eccessiva tensione, individua una situazione di stress occupazionale, caratterizzata dal verificarsi di almeno un’azione ostile, che la vittima (il lavoratore) subisce dal suo aggressore (lo strainer), i cui effetti negativi sono destinati ad avere durata protratta e costante nel tempo.
In Italia si deve alla giurisprudenza il riconoscimento del fenomeno in parola. La prima pronuncia sull’argomento si deve al Tribunale del Lavoro di Bergamo, sentenza n. 286 del 21 aprile 2005.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso P. I. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo in funzione di giudice del lavoro, la A. T. s.r.l. per sentir accertare la dequalificazione posta in atto nei suoi confronti a decorrere dal luglio 1998 e per sentirla conseguentemente condannare al risarcimento del danno subito. A fondamento di tali pretese la ricorrente, premesso di aver iniziato a lavorare per la A. T. s.r.l. sin dal 1989 con mansioni di impiegata I° livello CCNL terziario addetta alla gestione del recupero crediti, esponeva che con comunicazione del 1.7.1998 era stata formalmente assegnata a mansioni di “analista sistemista”, ma che in realtà era stata completamente privata delle proprie mansioni. Si costituiva regolarmente in giudizio la A. T. s.r.l., resistendo alla domanda di cui chiedeva il rigetto. La causa, istruita testimonialmente e tramite CTU medico-legale, è stata discussa e decisa all’udienza odierna mediante separato dispositivo di cui veniva data pubblica lettura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è fondato. L’istruttoria testimoniale ha confermato come la ricorrente, dipendente della convenuta sin dal 1989 con mansione di addetta recupero crediti, a partire dall’ottobre 1998 ed a seguito del mutamento della compagine sociale della società, abbia subito un grave demansionamento, con l’assoluta privazione di tutte le mansioni svolte sino ad allora.
Deve quindi ritenersi che sia stata la datrice di lavoro a privare la ricorrente delle precedenti incombenze, decidendo di modificare le mansioni che costei aveva svolto ininterrottamente per quasi dieci anni e per le quali era certamente qualificata, assegnandole un nuovo incarico, ma di fatto lasciandola completamente inattiva, spostandola dall’ufficio che aveva sino ad allora occupato e condiviso con i propri colleghi e trasferendola in un ufficio isolato e dotato solo di materiale dismesso, senza strumenti per poter lavorare. La condizione di totale e forzata inattività in cui la P. si è trovata dall’ottobre 1998 (doc. 2 fasc. ricorrente) sino al 31.3.2001 (data delle dimissioni) integra una chiara violazione dell’art. 2103 c.c., la cui finalità è quella di salvaguardare “il diritto del lavoratore alla utilizzazione, al perfezionamento ed all’accrescimento del proprio corredo di nozioni di esperienza e perizia acquisita nella fase pregressa del rapporto ed impedire conseguentemente che le nuove mansioni determinino una perdita di potenzialità professionali acquisite o affinate sino al quel momento, o che per altro verso comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore” (così cass. civ. sez. lav. n. 10405/95). E’ evidente che lo stato di inattività cui la ricorrente è stata costretta abbia determinato un progressivo svuotamento del suo bagaglio professionale e delle conoscenze acquisite, soprattutto tenuto conto che si è trattato di una assoluta privazione delle mansioni protrattasi per oltre due anni. Vanno poi considerate le modalità attraverso le quali tale demansionamento è stato attuato, isolando la lavoratrice, che si è vista trasferire dall’ufficio condiviso con i colleghi da circa dieci anni per essere collocata in un locale sprovvisto dei necessari strumenti di lavoro ed utilizzato come deposito per i materiali dismessi. Il comportamento illecito è stato quindi posto in essere dal datore di lavoro con particolare ostilità ed avversione verso la ricorrente, considerato che il lavoro, come più volte affermato dalla giurisprudenza, non rappresenta solo un mezzo di guadagno, ma anche una forma di estrinsecazione della personalità dell’individuo sul luogo di lavoro, diritto tutelato dagli artt. 2 e 3 Cost. (v. cass. civ. sez. lav. n. 12553/03, n. 15686/02 e n. 8835/01). La A. T. s.r.l. va quindi condannata al risarcimento del danno subito dalla P. in conseguenza di tale illecita condotta, danno da liquidarsi equitativamente utilizzando come parametro la retribuzione della ricorrente.
Passando quindi ad analizzare la domanda relativa al risarcimento del danno alla salute conseguente a tale condotta, la stessa appare fondata, benché i fatti non siano riconducibili alla fattispecie del mobbing, come prospettato dalla ricorrente, bensì a quella dello straining. In proposito, va ricordato che il mobbing, nella definizione offerta dalla psicologia del lavoro, cui gran parte della giurisprudenza di merito ha ormai aderito, sia “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente” (v. da ultimo anche Trib. Forlì n. 28/05). Si ritiene inoltre in dottrina che il mobbing non si caratterizzi per una singola azione, concretizzandosi in “una strategia, un attacco ripetuto, continuato, sistematico, duraturo”, tant’è che sono state individuate cinque categorie entro cui ricondurre le azioni mobbizzanti e precisamente: gli attacchi ai contatti umani (limitazioni alle possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, rimproveri e critiche frequenti, sguardi e gesti con significato negativo); l’isolamento sistematico (trasferimento in un luogo di lavoro isolato, atteggiamenti tendenti ad ignorare la vittima, divieti di parlare od avere rapporti con questa); i cambiamenti delle mansioni (privazione totale delle mansioni, assegnazione di lavori inutili, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima); gli attacchi contro la reputazione (pettegolezzi, ridicolizzazioni, anche calunnie, umiliazioni); la violenza o la minaccia di violenza (minacce od atti di violenza fisica, anche a sfondo sessuale), altre azioni. Ciò che viene evidenziato dai teorizzatori del fenomeno è che il mobbing non è costituito e non si esaurisce in una singola condotta (ad esempio in un singolo demansionamento od in una molestia sessuale), ma si traduce in una vera e propria aggressione, in un accerchiamento della vittima, in un conflitto mirato contro una persona od un gruppo di persone ove deve essere ben percepibile un intento persecutorio (al fine di distinguerlo, a titolo esemplificativo, da tutte quelle situazioni di tensioni naturalmente conseguenti da un cambiamento di gestione o di organizzazione). Gli elementi caratterizzanti il mobbing sono costituiti dalla frequenza (che serve a differenziare un singolo atto di ostilità da quel conflitto sistematico e persecutorio che è il mobbing) e dalla ripetitività nel tempo delle aggressioni. Ciò premesso, il CTU nominato, dott. H. Ege, nell’analizzare la vicenda, mentre ha ritenuto sussistenti alcuni parametri di riconoscimento del mobbing (quali: l’ambiente lavorativo, in cui i fatti si sono svolti; la durata della conflittualità, superiore ai sei mesi, tempo ritenuto necessario per configurare un caso di mobbing; la tipologia delle azioni ostili, alcune della quali tipiche del mobbing, come ad esempio l’isolamento ed il cambiamento delle mansioni lavorative; il dislivello tra gli antagonisti, in quanto la vittima si trova in posizione di inferiorità rispetto alle decisioni dei superiori), non ha tuttavia ravvisato altri elementi caratterizzanti il mobbing (v. relazione CTU). In particolare, il dott. Ege ha escluso che la situazione della ricorrente sia stata scandita attraverso fasi successive, in quanto il conflitto, dopo il cambiamento di mansioni e l’isolamento, si è mantenuto sempre sullo stesso livello (v. relazione CTU). In proposito, secondo la psicologia del lavoro il mobbing presuppone che “la vicenda lavorativa conflittuale non sia stabile, ma in evoluzione secondo una progressione di fasi casualmente legate l’una all’altra” (v. relazione CTU). Il mobbing si sviluppa quindi attraverso sei fasi, dalla cosiddetta “condizione zero”, di conflitto fisiologico normale ed accettato, alla “sesta fase”, di esclusione della vittima dal posto di lavoro (per dimissioni, licenziamento od altra causa). Tuttavia, pur nell’assenza di alcuni elementi tipici del mobbing, il CTU ha ritenuto che il comportamento tenuto nei confronti della P., sia stato ugualmente fonte di un danno alla salute, riconducibile a quel diverso fenomeno che la psicologia del lavoro definisce straining (v. relazione CTU). In particolare, la differenza tra lo straining ed il mobbing è stata individuata nella mancanza “di una frequenza idonea (almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali situazioni le azioni ostili che la vittima ha effettivamente subito sono poche e troppo distanziate tempo, spesso addirittura limitate ad una singola azione, come un demansionamento o un trasferimento disagevole” (v. relazione CTU). Pertanto, mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di un demansionamento). Lo straining è stato quindi definito come “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone ma sempre in maniera discriminante” (v. relazione CTU). In ogni caso, a prescindere dalle definizionI e dalle classificazioni, il CTU ha accertato che il comportamento illecito tenuto dalla A. T. s.r.l., come sopra ricostruito, ha determinato una lesione di carattere permanente sull’integrità psico-fisica della lavoratrice, la quale risulta aver riportato un danno biologico permanente quantificato nella misura del 7/8% (v. relazione CTU). La P., infatti, ancora oggi presenta “disturbi alimentari e del sonno, insicurezza, tendenza all’isolamento ed all’esclusività degli affetti, fobia della folla, diffidenza generalizzata verso gli estranei”, una patologia diagnosticabile come “disturbo depressivo-ansioso” (v. relazione CTU). La società convenuta è quindi tenuta anche al risarcimento di tale danno.